E chi non ha mai sentito parlare della
Titanomachia: la guerra tra generazioni divine?
"[...] Con il passare del tempo, Zeús crebbe sano e robusto, sull'isola di Krḗtē, finché giudicò venuto il momento di muoversi contro il padre Krónos. Il dominio dei Titânes era contrassegnato dalla brutalità e dalla violenza, ma l'oracolo della dea-terra Gê, colei che ha molti nomi e una sola forma, aveva dichiarato:
— Non servono né forza né potenza; il più astuto sarà re.
Ma l'astuzia non mancava certo a Zeús. Egli poteva anche contare sull'aiuto di Mêtis, figlia di Ōkeanós, la più accorta e sapiente tra tutti gli dèi e i mortali, che sarebbe divenuta la sua prima compagna. Fu proprio lei, dicono, a propinare a Krónos un phármakon, per effetto del quale il re dei Titânes fu costretto a vomitare quanto aveva divorato.
Secondo altri fu la stessa Gê a ingannare Krónos, inducendolo a restituire alla vita i propri figli.
Comunque stiano le cose, Krónos dapprima rigettò la pietra che era stata inghiottita per ultima, al posto di Zeús neonato. Poi, Krónos rigettò, uno dopo l'altro, Poseidôn, Háidēs, Hḗra, Dēmḗtēr ed Hestía. Ed essi emersero vivi, e adulti, dallo stomaco di loro padre.
Al fianco dei suoi fratelli e sorelle, Zeús si arroccò sulla cima del monte Ólympos, nel nord della Thessalía. E annunciò che chiunque avrebbe combattuto, insieme a lui, contro Krónos e i Titânes, avrebbe mantenuto gli onori di cui già godeva. E aggiunse che coloro che Krónos aveva spogliato dei loro privilegi, avrebbero da lui ricevuto quegli onori che la giustizia esigeva.
Gli immortali si divisero allora tra coloro che sostenevano Krónos e quanti appoggiavano la sovranità di Zeús. Prima a giungere sull'Ólympos, fu la dea fluviale Stýx, l'ultima figlia di Ōkeanós, e con lei vi erano due dei suoi figli, Krátos, il «potere», e Bíē, la «forza». Zeús si pose a fianco i due giovani, che da quel giorno divennero le sue fedeli guardie del corpo. Non c'è strada che Zeús non percorra, senza che Krátos e Bíē non procedano al suo fianco; e i loro seggi sono sempre accanto al suo trono. Alla stessa Stýx, Zeús elargì splendidi doni e istituì sulle sue sacre acque il gran giuramento degli dèi.
Krónos si schierò con i suoi fratelli Koîos, Kreîos, Hyperíōn e Iapetós sul monte Óthrys, nel meridione della Thessalía. Solo Ōkeanós rimase neutrale nella sua sede, ai confini del mondo. La tattica dei Titânes si basava sull'esercizio della cruda violenza, ma il figlio di Iapetós, l'accorto Promētheús, cercò di indurli alla ragione. Ricordò loro che Gê aveva decretato la vittoria del più astuto.
I Titânes spregiarono però i suoi consigli e Promētheús decise allora di passare dalla parte di Zeús.
Per dieci anni le due generazioni divine, soffrendo grandi pene, si affrontarono in tremende battaglie.
Sembrava non esserci, all'aspra contesa, né fine né soluzione. Né gli scontri portavano qualche vantaggio per l'una parte o per l'altra. La conclusione della guerra si profilava lontana e incerta.
L'oracolo della dea-terra Gê predisse allora a Zeús la vittoria, a patto che prendesse come alleati coloro che Ouranós, nella sua scelleratezza, aveva imprigionato nel Tártaros.
Invidioso della forza e dell'aspetto degli Ekatóŋcheires, i giganti dalle cento braccia, Ouranós li aveva infatti incatenati nel profondo della terra, ai confini del mondo, e da molto tempo Kóttos, Briáreōs e Gýgēs soffrivano pene e dolori nella loro prigione. Stessa sorte avevano subito i Kýklōpes dal cuore violento: anche Bróntēs, Sterópēs ed Árgēs stavano rinchiusi sotto la terra dai vasti cammini, crucciati nel cuore.
Zeús si recò allora nel Tártaros e, dopo avere ucciso Kámpē, il mostro difforme, dall'alta testa, che custodiva i prigionieri di Ouranós, sciolse gli Ekatóŋcheires e i Kýklōpes dai lacci funesti che il padre aveva loro imposto.
Dopo essere stati condotti sul monte Ólympos, Ekatóŋcheires e Kýklōpes vennero fatti rifocillare con néktar e ambrosía, lo stesso cibo che consumavano gli dèi. Quel nutrimento infuse nei loro animi coraggio e valore.
Allora Zeús si rivolse loro: — Ascoltatemi, splendidi figli di Gê e Ouranós, affinché io dica quanto il cuore mi suggerisce nel petto. Già da tempo contendiamo ogni giorno, i Titânes e noi nati da Krónos, per il dominio sul kósmos. E voi, risaliti alla luce per mia volontà, dopo che tanto a lungo avete sofferto nella tenebra oscura, potete ora mostrare ora ai Titânes di quale forza sono capaci le vostre braccia invincibili.
A lui rispose Kóttos, a nome dei suoi fratelli: — Signore, non ci racconti cose sconosciute, ma anche noi sappiamo che in te albergano saggezza e intelligenza. Sappiamo che salvasti i tuoi stessi fratelli dalla furia divoratrice di Krónos. E siamo consci di essere stati liberati dalle tenebre per tua scelta. Perciò, con mente inflessibile e accorto pensiero, combatteremo ora al vostro fianco contro i Titânes, appoggiando il vostro potere nelle aspre battaglie.
Tutti gli dèi lodarono il suo discorso e tutti i cuori, ancor più di prima, bramarono di tornare a combattere. I Kýklōpes si misero al lavoro e consegnarono a Zeús il tuono, la folgore ardente e il fulmine che, prima, celava in seno l'immane Gê. A Poseidôn donarono il tridente, ad Háidēs l'elmo che rende invisibili.
La battaglia riprese con inaudita ferocia. Da un lato i Titânes, dall'altra quanti erano stati generati da Krónos e i loro alleati.
I possenti Ekatóŋcheires si schierarono dinanzi al nemico e, roteando le cento braccia che si protendevano dalle loro spalle, presero a scagliare contro di loro una gragnola di enormi macigni. Dall'altra parte, i Titânes rinforzarono subito le schiere e mostrarono a loro volta di quale forza e arroganza fossero capaci.
Così tremenda era la battaglia, che ne risuonava il mare infinito, rimbombava sotto i piedi la terra, gemeva il vasto cielo. Lo stesso monte Ólympos tremava sotto l'assalto dei Titânes, e le scosse di quell'indicibile tumulto giungevano fino al Tártaros. I due eserciti si scontravano con indicibile strepito e le loro grida giungevano fino al cielo stellato
Né Zeús trattenne oltre il suo furore. Colmatosi il suo cuore di rabbia, manifestò tutta la sua furia e violenza. Agguantando tra le mani i fulmini forgiati dai Kýklōpes, scese dall'Ólympos in un incessante bagliore di lampi. Le folgori piovevano fitte giù dal cielo, facendo rimbombare la terra; i boschi crepitavano tra le fiamme, bollivano le correnti di Ōkeanós e il mare infecondo. Il tuono, il fulmine e la folgore, scagliati come dardi, suscitavano grida e clamore da entrambi i fronti, ed era tale il fragore che sembrava che il cielo stesse per precipitare sulla terra, o la terra si stesse sollevando per abbattersi contro il cielo. Era come se Ouranós e Ge stessero per unirsi ancora una volta nel loro abbraccio, ma tale immane frastuono era provocato unicamente dagli immortali in lotta gli uni contro gli altri.
Poi la battaglia volse al declino. Accecati dai fulmini, travolti dai venti infuocati, schiacciati dai macigni scagliati giù dal cielo, i Titânes vennero sbaragliati.
Finalmente abbattuti, i Titânes vennero avvinti da terribili catene. Furono gli Ekatóŋcheires a trascinarli sotto la terra dai vasti cammini, in un luogo così lontano dalla superficie terrestre quanto questa è distante dal cielo. Si dice che un'incudine di bronzo, lasciata cadere dal cielo, precipiti per nove notti e nove giorni, prima di toccare terra nel decimo. Ebbene, la stessa incudine, cadendo dalla terra, precipiterebbe per nove notti e nove giorni, prima di giungere al Tártaros.
Luogo oscuro e penoso, che persino gli dèi hanno in odio, vi sono nel Tártaros le sorgenti e i confini del kósmos. Venti furiosi si impadronirebbero subito di chiunque oltrepassi quelle porte, trascinandolo via da una tempesta all'altra, e non basterebbe un anno intero per riuscire ad arrivare sul fondo di quell'abisso.
Lì, in una caligine oscura, vennero rinchiusi i Titânes, in una cupa terra ai confini del mondo. Circonda quel luogo un muro di bronzo, e la notte lo cinge in triplice fascia, quasi una collana, mentre al di sopra di esso sorgono le radici della terra e del mare scintillante. Su quel muro, Poseidôn ha imposto delle porte di bronzo, ma ai Titânes non è dato di passarle. Lì posero dimora Gýgēs, Kóttos e il magnanimo Briáreōs, fedeli guardiani di Zeús.
Non lontano, a occidente, s'innalza la casa terribile di Nýx, la notte oscura, avvolta da nuvole livide. Nei pressi, sono soliti incontrarsi Nýx ed Hēméra, la notte e il giorno, che si alternano nel passare attraverso un portale di bronzo, l'una per scendere in basso, l'altra per percorrere la terra e il mare. Qui hanno dimora anche i figli di Nýx: Hýpnos, il sonno, e Thánatos, la morte funesta. Di loro, l'uno percorre la terra e l'ampio dorso del mare, pacifico e lieve per gli uomini; l'altra, con cuore ferrigno e animo di bronzo, tiene per sempre in suo potere chiunque ghermisca. Qui dimora anche Stýx, nell'illustre casa, ricoperta di roccia, che s'appoggia su colonne d'argento rizzate verso il cielo. Di fronte alberga la dimora degli inferi, dove un giorno siederà Háidēs con la sua sposa.
Ma furono i figli di Iapetós a subire la sorte peggiore. Átlas, che alcuni dicono abbia guidato i Titânes nel corso della battaglia, venne esiliato nel remoto occidente, presso le isole delle Hesperídes, proprio di fronte alla casa di Nýx. E lì, ritto con testa e braccia instancabili, fu condannato a reggere la volta del cielo. Suo fratello, il tracotante Menoítios, venne colpito dal fulmine e precipitato nell'Érebos tenebroso. L'astuto Promētheús, che pure aveva aiutato Zeús nel corso della battaglia, venne incatenato – ma per altre ragioni – alle rupi del Kaúkasos. In quanto al malaccorto Epimētheús, non soffrì punizioni, ma sarebbe stato lui stesso causa di eterna condanna per l'intero genere umano...
Più lieve il destino delle titanídes – Theía, Thémis, Mnēmosýnē e Phoíbē –, che Zeús graziò per intercessione di Mêtis e Rhéa. [...]"
Fonte: bifrost.it (Bifröst, il ponte arcobaleno).