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Mitologia

Leopardi diceva: "L'unico modo per non far conoscere agli altri i propri limiti, è di non oltrepassarli mai.". Discutiamo qui di filosofia e di tutte quelle tematiche che toccano la sfera della saggezza e della profondità d'animo.

Mitologia

Messaggioda sweet_elly91 » 29/04/2012, 16:29

Ciao a tutti! :D Ho visto che il forum si sta popolando di appassionati di mitologia e allora pensavo di approfondire un po' questo tema qui. Francamente a me la mitologia piace molto, ma credo di essere molto ignorante in materia, per questo mi piacerebbe raccogliere qui degli aneddoti da parte dei più esperti, le storie di questo tipo solitamente sono così avvincenti :mrgreen:

Mi ricordo il mito di Prometeo, per esempio. Quello lo avevo amato molto :)
Spero possa essere un topic utile per tutti per farsi una cultura a riguardo, me soprattutto :angle:
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Re: Mitologia

Messaggioda Talos » 02/05/2012, 23:03

Inizio io allora, con il mio nome

Talos, l'uomo di bronzo


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La storia che segue non ha niente a che vedere con i nuraghi. Però ha a che fare con la Sardegna e con lo stesso Dedalo. È la storia di Talos, l'uomo di bronzo: uno strano automa gigantesco che Zeus aveva personalmente regalato a suo figlio Minosse per difendere l'isola di Creta dagli attacchi dei nemici, i quali dovevano essere allora davvero tanti, visto il caratteraccio di quel re.
Ma si racconta anche che il regalo del re dell'Olimpo mirasse alla protezione di Europa: altra conquista "terrena" di Zeus, da lui rapita dopo essersi trasformato in toro (guarda caso!), e madre proprio di quella buona lana di Minosse.
Talos era una specie di Minotauro meccanico, infatti aveva anche lui la testa di toro e il corpo di uomo: davvero una costante un po' schizoide, per i cretesi. Ma l'Uomo di bronzo era anche un essere vivente, perché il sangue gli scorreva normalmente dentro il corpo attraverso una sola vena collegata fra collo e talloni, dove veniva bloccata da un chiodo di ferro. Il suo compito principale era quello di percorrere tre volte al giorno il perimetro dell'isola e di scagliare massi giganteschi contro le navi nemiche.
Non è ancora chiaro, però, se si trattasse di un uomo meccanico realizzato da Dedalo, ai tempi della sua amicizia con Minosse, oppure direttamente dal dio Efesto, grandissimo fabbro e costruttore anche lui. Quel che appare certo è che il bronzo con cui Talos fu forgiato veniva proprio dalle ricche miniere di rame e di stagno della Sardegna.
Tuttavia, questo sua discendenza isolana non gli impedì, un giorno, di affrontare a muso duro gli stessi Sardi invasori (forse i famosi Shardana, i terribili guerrieri mercenari di cui, a quanto pare, si servirono gli Egiziani e gli
stessi Greci in diverse occasioni). Quando l'esercito sardo sbarcò nell'isola di Creta, Talos si rotolò su un grande falò acceso e fece arroventare il suo gigantesco corpo di bronzo. Dopo di che, accolse i nemici in un abbraccio di fuoco e li bruciò tutti, con una tremenda risata satanica che fece tremare l'intera isola.
Ma c'è anche chi racconta che furono proprio i duri Sardi/Shardana, fatti prigionieri dall'esercito di Minosse, ad affrontare quell'abbraccio mortale ridendo a denti stretti, per mostrare il loro coraggio e il disprezzo per la morte.
Secondo lo storico Pausania, fu proprio così che nacque il "riso sardonico".
A nostra "sardonica" consolazione (o vendetta che dir si voglia), occorre sapere che, dopo questa impresa, qualcuno - forse la mitica Medea o addirittura i famosi Argonauti - fece all'Uomo di bronzo lo scherzo di tiragli via il chiodo dal tallone, facendo uscire il sangue a fiotti da quell'unica vena che aveva, uccidendolo.
Ben altre, invece, sono le motivazioni che gli storici moderni attribuiscono all'origine del "riso sardonico": la tragica risata che accompagnava il feroce rito del "Geronticidio", e cioè l'uccisione dei vecchi nelle società primitive, comune a quasi tutti i popoli dell'antichità, in particolare a quelli dell'area del Mediterraneo, per consentire che la loro anima potesse essere trasmessa ancora forte ai loro successori.



Fonti: Rosso Pompeiano forum, "La Sardegna dei Sortilegi" di F.Fresi, F.Enna, G.L.Medas e N. Piras (Newton & Compton)
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Re: Mitologia

Messaggioda Nesrìn » 04/05/2012, 14:07

E ora tocca a me. :D
Vediamo ... Che ne dite di un pò di mitologia Germanica?

Esistono due versioni del mito sulla creazione degli uomini: la prima è quella data da Snorri Sturluson (nell'Edda) e l'altra è quella data dalla Vǫluspá (letteralmente: la profezia della veggente).

1 - CREAZIONE DEGLI UOMINI PER OPERA DEI FIGLI DI BORR: (Snorri)

Dopo aver creato il mondo e aver dato vita alla stirpe dei nani, i figli di Borr ripresero la via di casa. Giunti sulle sponde del mare, trovarono due alberi sbattuti a riva dalle onde. Erano un frassino e un olmo.

Allora Óðinn diede loro il respiro e la vita, Vili diede loro la ragione e il movimento, Vé diede loro forma, parola, udito e vista. Da quei due tronchi inanimati venne la prima coppia umana. I figli di Borr imposero loro dei nomi: l'uomo si chiamò Askr «frassino» e la donna Embla «olmo». Gli dèi diedero loro delle vesti, come ricorda Óðinn:

Le mie vesti diedi nei campi a due uomini di legno.
Grand'uomini si credettero come ebbero gli abiti: nudo, chiunque è affranto.


Da questa prima coppia fu generata tutta l'umanità, cui fu data dimora nel Miðgarðr. Questo almeno è quanto fu narrato a re Gylfi durante il suo viaggio nell'Ásgarðr.

2 - CREAZIONE DEGLI UOMINI PER OPERA DI ÓÐINN, HǾNIR E LOÐURR: (Vǫluspá)

La vǫlva attribuisce la creazione della prima coppia a Óðinn, Hǿnir e Lóðurr. Costoro stavano tornando alla loro dimora quando trovarono in terra Askr ed Embla, il frassino e l'olmo, senza forze e senza un destino. Óðinn diede loro il respiro, Hǿnir concesse l'anima, Lóðurr donò il calore vitale e il colorito. Così come qui dice:

Finalmente tre vennero da quella stirpe, potenti e belli, æsir, a casa.
Trovarono in terra, senza forze, Askr ed Embla, privi di destino.
Non possedevano respiro né avevano anima, non calore vitale, non gesti né colorito.
Il respiro dette Óðinn, l'anima dette Hǿnir, il calore vitale dette Lóðurr e il colorito.


Ciò che conta, in ogni caso, è che da quel frassino e da quell'olmo, per volontà degli dèi, si levarono un uomo e una donna. Askr ed Embla furono i progenitori di tutta l'umanità. A essi e ai loro discendenti, gli dèi diedero dimora nel Miðgarðr.

Fonte: bifrost.it (Bifröst, il ponte arcobaleno).
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Re: Mitologia

Messaggioda Talos » 04/05/2012, 14:50

Aggiungo una favola che può essere considerata " la prima Cenerentola", poco mito ma molto interessante

La favola di Rodopi

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La storia di Rodopi (o Rodope) è un'antica fiaba egiziana. Citata per la prima volta da Erodoto,e poi da Strabone, ed infine anche da Claudio Eliano nella sua opera Storia varia, la storia di Rodopi è considerata il più antico archetipo letterario di Cenerentola, in quanto il faraone Amasis, protagonista della fiaba, è un personaggio reale, vissuto nella XXVI dinastia egizia (663-609) (a.C.), molto noto agli storici antichi in quanto agevolò i commercianti greci; lo stesso Erodoto citò vari aneddoti sulla cortigiana Rodopi.
È da notare che secondo alcune versioni della fiaba egiziana Rodopi-Cenerentola non è una modesta e schiava, ma una cortigiana di successo.

Rodopi (Ῥοδῶπις, guance rosa), bellissima schiava di stirpe tracia, lavora nell'abitazione del suo padrone egiziano. Sebbene gentile con lei, il padrone di casa, che passa molto del suo tempo a dormire, è completamente ignaro dei maltrattamenti che è costretta a subire dalle altre schiave. Esse si prendono infatti gioco del suo status di straniera e della sua carnagione chiara, sottoponendola, di conseguenza, a continui ordini e comandi vessatori.

Avendola sorpresa a danzare da sola con grande abilità, egli le fece dono di un paio di pantofole di oro rosso con il risultato, a sua insaputa, di inasprire ancor più il comportamento delle altre schiave nei suoi confronti.

Un bel giorno il faraone Amasis invita il popolo d'Egitto ad un'imponente celebrazione da lui offerta nella città di Menphi. Le altre schiave ostacolano la partecipazione di Rodopi, ingiungendole di portare a termine una lunga lista di ingrati lavori domestici.

Mentre Rodopi è al fiume a fare il bucato con le sue pantofole esposte ad asciugare al sole, improvvisamente Horus, nelle sue sembianze di falcone, si abbatte in picchiata portandone una in volo con sé.

Volato fino a Menphi, il falcone lascia cadere la sua preda in grembo al faraone il quale, interpretato l'evento come un segno da Horus, decreta che tutte le fanciulle del regno dovessero provare la pantofola perché lui avrebbe sposato quella che fosse riuscita a calzarla.

La lunga ricerca del Faraone, rivelatasi fino ad allora vana, lo conduce infine nella casa di Rodopi. La schiava, vista arrivare l'imbarcazione reale, cerca invano di nascondersi. Non riesce però a sfuggire alla vista del faraone che la prega di provare la calzatura. Dopo aver constatato la pertinenza della pantofola al suo piedino, ella trae fuori l'altra e il faraone la prende con sé per sposarla.

Il faraone Amasis (V secolo a.C.) sposò effettivamente una schiava greca di nome Rodopi, facendo di lei la regina.

La bella Rodopi, chiamata anche Dorica, che ebbe una grande fama nel mondo greco, viene citata da Erodoto come schiava tracia di Iadmone di Samo, padrone anche di Esopo. Rodopi si recò a Naucrati al seguito di Xanto di Samo, divenendo un'etera famosa per la sua bellezza. Immensamente arricchitasi, fu generosa offerente al santuario di Delfi. L'attribuzione a lei di una piramide è considerata però infondata dallo storico di Alicarnasso

È famosa anche, come ci informa la stessa fonte, per essere stata riscattata da Carasso, il fratello di Saffo, mercante di vini di Lesbo, sui mercati di Naucrati e dell'Egitto.

In effetti esistono alcuni frammenti dell'opera di Saffo che riconducono a questa storia (frammenti 5, 7 e 15). In particolare il più completo dei tre, il n. 5, contiene un'invocazione ad Afrodite e alle Nereidi perché propizino il rientro del fratello, libero dagli antichi errori.



Mitologia Nuragica

Lista dei principali eroi isolani le cui gesta sono state tramandate principalmente dagli storici greci:

* Sardo: Generato da Ercole, giunse nell'isola, chiamata in suo onore Sardegna, al seguito dei Libi.
* Norace: Figlio di Hermes e di Erithia (figlia di Gerione) condusse in Sardegna gli Iberi fondatori della città di Nora.
* Aristeo: Figlio del dio Apollo e della ninfa Cirene, fondatore e re di Carales introdusse in Sardegna l'agricoltura e l'apicoltura.
* Iolao: Figlio di Ificle, fratello di Ercole, condusse i Tespiadi e gli Ateniesi in Sardegna dove fondò città, templi, edifici pubblici, tribunali, etc....
* Dedalo: Giunse in Sardegna secondo alcune fonti con Aristeo, secondo Diodoro Siculo con Iolao. Edificò nell'isola "erga polla megala", numerose e grandi opere chiamate Daidaleia.

La figura di questi eroi mitologici assunse particolare rilevanza durante la fase nuragica detta "delle aristocrazie" (900-500 a.C. circa). Alcuni di essi verosimilmente si inserirono fra la mitologia sarda a seguito dei contatti con il mondo ellenico, mentre altri (quali Sardo e Norace) erano probabilmente già parte del pantheon nuragico originario.

Molto importante fra i nuragici fu il culto delle acque, forse connesso al culto della dea Orgìa corrispondente proto-sarda della greca Medusa. In degli speciali edifici religiosi chiamati pozzi sacri, diffusi in tutto il territorio sardo, venivano depositate offerte votive per richiedere alle divinità acquatiche guarigioni e purificazioni.

Alcune grotte naturali, in taluni casi riadattate architettonicamente, svolgevano la funzione di luoghi sacri in parte legati anch'essi al culto della acque. Si conoscono ad esempio la fonte della grotta Sa Preione 'e S'Orku di Siniscola, Su Benatzu di Carbonia ecc.

Le tombe dei giganti, le sepolture tipiche della civiltà nuragica, oltre ad una funzione sepolcrale ne avevano anche una regliosa; racconta infatti Aristotele che all'interno di queste tombe gli antichi sardi usavano praticare riti incubatori che potevano durare giorni, allo scopo di ricevere consigli, presagi e per richiedere guarigioni agli eroi-antenati.

La triade betilica poteva essere sia maschile che femminile e probabilmente simboleggiava una triade di divinità; queste triadi si trovano spesso nel terreno antistante le tombe dei giganti. La triade maschile, probabilmente simboleggiante la morte, era forse composta da Maimone, dio celeste e dell'acqua, da Mere (o Sardo) e da Iolao o Norace. La triade femminile, riconoscibile per via delle mammelle e di altri tratti femminili scolpite sul betilo, simboleggiava invece il ciclo della vita e della rinascita.


Al culto betilico era forse connesso quello, di probabile derivazione micenea, dell'ascia bipenne o labrys testimoniato dal ritrovamento di una "sacra bipenne betilica" (secondo la definizione del Taramelli) in bronzo, scoperta in una capanna circolare (detta capanna dell'ascia bipenne) del famoso santuario federale di Santa Vittoria di Serri.

Il culto veniva esplicato attraverso il sacrificio di animali quali bovini, suini, ovini ma anche molluschi le cui ceneri sono state ritrovate ai piedi della labrys.

Figura simbolica di rilievo era probabilmente quella del cervo. Molte spade e navicelle nuragiche, offerte alle divinità, presentavano una protome cervina. Altro animale sacro era il toro la cui funzione religiosa è attestata a partire dalle culture prenuragiche.

L'importanza di questi due animali, e più in generale di tutti gli animali muniti di corna, è testimoniata dai bronzetti rappresentanti figure metà toro e metà uomo, cervi con due teste aventi carattere mitologico, simbolico e religioso.

Analogamente a quanto ero in uso secoli dopo presso le popolazioni italiche anche nella Sardegna nuragica esisteva un rito simile a quello del "Ver Sacrum". Si ipotizza infatti che la costruzione di un nuovo nuraghe e del villaggio antistante fossero preceduti dall'allontamento dei giovani dalla comunità che si insediavano dunque in un nuovo territorio dove veniva edificato il nuovo insediamento.


Fonte: Rosso Pompeiano forum e Wikipedia
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Re: Mitologia

Messaggioda mark » 04/05/2012, 21:35

Posto volentieri anch'io un mito che amo molto, quello di Dafne e Apollo :)

Il nome Dafne significa "lauro", alloro, e costei fu il primo amore del dio Apollo. Si diceva che Dafne fosse figlia del dio fluviale Ladone e della Terra. Apollo si vantò perché aveva compiuto azioni di gloria e Cupido, geloso, decise di farlo innamorare della ninfa Dafne. Creò due frecce una con la punta ben acuminata fatta di oro (destinata a infliggere l'amore di Apollo verso Dafne) e l'altra con la punta stondata fatta di ferro (destinata a far respingere l' amore di Apollo verso Dafne). Altri narratori le attribuivano per padre il dio fluviale Peneo, cui apparteneva la valle di Tempe in Tessaglia. Sacerdotessa di Gea, Dafne era una fanciulla selvaggia, simile ad Artemide, che riesce non solo a conquistare il cuore di Apollo, ma anche quello di un giovane mortale di nome Leucippo, "quello dei cavalli bianchi". Leucippo si travestì da donna per potersi accostare a Dafne. Secondo alcune fonti le sacerdotesse decisero, forse per suggerimento di Apollo, di effettuare nude i loro riti, secondo altre fonti durante il bagno, tuttavia ciò portò allo smascheramento di Leucippo che morì ucciso dalle stesse fanciulle. Fu il momento in cui Apollo, approfittando della caduta del nemico in amore, si dichiarò a Dafne, ma fu respinto. Il dio si mise all'inseguimento della fanciulla che era corsa via spaventata, e stava quasi per raggiungerla quando Dafne, invocato l'aiuto di Gea o del padre, si trasformò in un albero di alloro. Da allora fu l'albero preferito di Apollo, che ne porta i rami come una corona.

Il mito di Dafne ha come prologo l'uccisione da parte del dio Apollo del serpente Pitone. Fiero di sé il dio del Sole si vantò della sua impresa con il dio dell'Amore Cupido, schernendolo per il fatto che le sue armi, arco e frecce, non sembravano adatte a lui. Cupido, deciso a vendicarsi, colpì il dio con una freccia d’oro, in grado di far innamorare alla follia dei e mortali della prima persona su cui avessero posato gli occhi dopo il colpo, e la ninfa Dafne, di cui Apollo si era invaghito, con una freccia di piombo che faceva rifuggire l'amore. La ninfa colpita dalla freccia di piombo appena vide Apollo cominciò a fuggire. Apollo iniziò allora ad inseguirla, finché non giunse presso il fiume Peneo, pregando il padre di aiutarla (o secondo altre varianti la ninfa si rivolse alla Terra). Dafne si trasformò così in un albero d’alloro. Il dio, ormai impotente, decise di rendere questa pianta sempreverde e di considerarla a lui sacra e a rappresentare un segno di gloria da porre sul capo dei migliori fra gli uomini (generali vittoriosi sul Campidoglio), capaci di imprese esaltanti.

Un'altra versione del mito presenta Dafne, una mortale figlia di Amicla amante della caccia, che viveva percorrendo le montagne insieme alle sue compagne cacciatrici sotto la protezione di Artemide. Leucippo, figlio del re dell'Elide Enomao, invaghitosi di lei, per avvicinarla si travestì da donna e si unì al gruppo delle cacciatrici. Apollo, ingelositosi, decise di smascherare l'inganno ispirando al gruppo il desiderio di bagnarsi in una sorgente. Leucippo costretto a spogliarsi fu scoperto, e solo l'intervento degli dei che lo resero invisibile poté impedire una tragica fine. Apollo nel trambusto cercò di rapire Dafne, che però riuscì a fuggire e, dietro sua preghiera, venne trasformata da Zeus in alloro.


(Fonte: Wikipedia)
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Re: Mitologia

Messaggioda Talos » 04/05/2012, 21:43

Un'altra teoria sulla Creazione del Mondo

Enuma Elish Il Mito babilonese della Creazione

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Quando nell’alto il Cielo non aveva ancora un nome
E in basso anche il duro suolo [Terra] non aveva nome

Così comincia il testo sacro dei Babilonesi, vecchio di 4000 anni. Considerato per un secolo pura mitologia, nel 1976 lo storico Zecharia Sitchin formulò una nuova ipotesi, ad oggi non confutata, per la quale l’Enuma Elish altro non è che la descrizione in forma epica della formazione del sistema solare (avvenuta circa 4,6 miliardi di anni fa).
Secondo il testo babilonese, il sistema solare era, in origine, fortemente instabile: attorno al Sole vagavano, in orbite diverse da quelle attuali, altri dieci pianeti. Finché un giorno:

Nella Camera dei fati, nel luogo dei Destini,
un dio fu generato, il più capace e saggio degli dei:
nel cuore del profondo fu creato Marduk

Marduk, che corrisponde al pianeta che i Sumeri chiamavano Nibiru, venne proiettato all’interno del sistema solare da un evento cosmico sconosciuto. Per la sua enorme massa, Marduk è chiamato nella narrazione “il maggiore tra gli dei”, che “tutti sovrasta con la sua statura".
Nella sua corsa fu calamitato nell’orbita di Ea/Nettuno, e ne cambiò il senso di rotazione, da antiorario ad orario. Proseguì dirigendosi verso Anu/Urano, poi verso Anshar/Saturno e Kishar/Giove, dando a tutti una rotazione oraria.

Anche Marduk mutò la propria traiettoria, attratto dalla forza gravitazionale del Sole, ed entrò in rotta di collisione con un pianeta, Tiamat, caratterizzato dalla particolare ricchezza di acque. Nello scontro, Marduk “dilaniò il ventre” di Tiamat, “penetrò nelle sue viscere” e le “tagliò di netto il cranio” dividendola in due parti.

Una metà, ossia la Terra, fu spinta “verso luoghi che ancora nessuno conosceva”, ossia deviata nella sua nuova orbita attorno al Sole assieme al suo satellite Kingu (la Luna).

L’altra metà di lei egli innalzò come un paravento nei cieli:
schiacciata, piegò la sua coda sino a formare la grande fascia,
simile a un bracciale posto a guardia dei cieli

Marduk, il fattore creativo, aveva quindi generato, seguendo le indicazioni contenute nell’Enuma Elish, la Terra e i Cieli (la fascia di asteroidi).

Sitchin osserva come ciò corrisponda ai primi due giorni della creazione contenuti nella Genesi.

Dopo aver messo nella giusta posizione la testa di Tiamat

Egli vi innalzò le montagne.

Aprì le sorgenti per farvi nascere i fiumi.

Dagli occhi di Tiamat fece nascere il Tigri e l’Eufrate.

Dai suoi capezzoli formò le montagne,

perforò le sorgenti per costruire pozzi,

affinché si potesse portare via l’acqua.

Poi sulla Terra apparvero le “creature viventi, ciascuna secondo la sua specie: il bestiame, gli esseri che strisciano e le belve”. L’atto finale della creazione, ancora una volta analogamente alla Genesi biblica, fu l’Uomo, fatto “ad immagine e somiglianza” del dio che gli diede vita.

In conclusione, quello che gli scienziati definiscono Big Bang, i Babilonesi lo descrivono come lo scontro tra Tiamat, un pianeta ricco d’acqua, e la “fiamma divampante” Marduk, il dodicesimo pianeta, che generò le condizioni materiali per la nostra esistenza. Un sistema solare con dodici pianeti è effettivamente raffigurato in un sigillo accadico risalente al III millennio a.C., oggi esposto al Museo di Stato di Berlino, nel quale Marduk risulta in orbita come gli altri pianeti attorno al Sole.

CHE FINE HA FATTO MARDUK? - Una volta esaurita la propria funzione creativa, Marduk/Nibiru è definitivamente uscito dall’orbita solare, o ne è rimasto, in qualche modo, incanalato? Esiste o è mai esistito un dodicesimo pianeta del sistema solare, così come era conosciuto dalle civiltà mesopotamiche? Perché, con la nostra tecnologia astronomica sofisticata, non siamo in grado di vederlo, così vicino, mentre possiamo osservare altri corpi molto più distanti dalla Terra?

Qui Sitchin avanza la più audace delle sue teorie, vale a dire che Marduk/Nibiru abbia un’orbita ellittica dovuta alla forza gravitazionale di un altro polo d’attrazione, forse un secondo Sole, esterno al nostro sistema. In conformità a questa teoria Marduk si vede, e si percepisce, solamente ogni 3600 anni, vale a dire il tempo che impiega per compiere il suo percorso e tornare nel nostro sistema.

Il Diluvio universale, la scomparsa della civiltà chiamata Atlantide ed altri cataclismi avvenuti in passato, sarebbero quindi l’effetto del lento avvicinamento di Marduk al Sole ed alla Terra.

Anche se non è possibile stabilire scientificamente se ciò corrisponda a verità, un filo conduttore sembra legare nel profondo l’Enuma Elish con la Genesi biblica, e parimenti la nostra attuale civiltà con quella sviluppatasi tra il Tigri e l’Eufrate più di 4000 anni fa.



Fonte: Rosso Pompeiano forum e Blog Un Mondo Accanto
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Re: Mitologia

Messaggioda Nesrìn » 19/05/2012, 19:33

E chi non ha mai sentito parlare della Titanomachia: la guerra tra generazioni divine? :mrgreen:

"[...] Con il passare del tempo, Zeús crebbe sano e robusto, sull'isola di Krḗtē, finché giudicò venuto il momento di muoversi contro il padre Krónos. Il dominio dei Titânes era contrassegnato dalla brutalità e dalla violenza, ma l'oracolo della dea-terra Gê, colei che ha molti nomi e una sola forma, aveva dichiarato:

— Non servono né forza né potenza; il più astuto sarà re.

Ma l'astuzia non mancava certo a Zeús. Egli poteva anche contare sull'aiuto di Mêtis, figlia di Ōkeanós, la più accorta e sapiente tra tutti gli dèi e i mortali, che sarebbe divenuta la sua prima compagna. Fu proprio lei, dicono, a propinare a Krónos un phármakon, per effetto del quale il re dei Titânes fu costretto a vomitare quanto aveva divorato.

Secondo altri fu la stessa Gê a ingannare Krónos, inducendolo a restituire alla vita i propri figli.

Comunque stiano le cose, Krónos dapprima rigettò la pietra che era stata inghiottita per ultima, al posto di Zeús neonato. Poi, Krónos rigettò, uno dopo l'altro, Poseidôn, Háidēs, Hḗra, Dēmḗtēr ed Hestía. Ed essi emersero vivi, e adulti, dallo stomaco di loro padre.

Al fianco dei suoi fratelli e sorelle, Zeús si arroccò sulla cima del monte Ólympos, nel nord della Thessalía. E annunciò che chiunque avrebbe combattuto, insieme a lui, contro Krónos e i Titânes, avrebbe mantenuto gli onori di cui già godeva. E aggiunse che coloro che Krónos aveva spogliato dei loro privilegi, avrebbero da lui ricevuto quegli onori che la giustizia esigeva.

Gli immortali si divisero allora tra coloro che sostenevano Krónos e quanti appoggiavano la sovranità di Zeús. Prima a giungere sull'Ólympos, fu la dea fluviale Stýx, l'ultima figlia di Ōkeanós, e con lei vi erano due dei suoi figli, Krátos, il «potere», e Bíē, la «forza». Zeús si pose a fianco i due giovani, che da quel giorno divennero le sue fedeli guardie del corpo. Non c'è strada che Zeús non percorra, senza che Krátos e Bíē non procedano al suo fianco; e i loro seggi sono sempre accanto al suo trono. Alla stessa Stýx, Zeús elargì splendidi doni e istituì sulle sue sacre acque il gran giuramento degli dèi.

Krónos si schierò con i suoi fratelli Koîos, Kreîos, Hyperíōn e Iapetós sul monte Óthrys, nel meridione della Thessalía. Solo Ōkeanós rimase neutrale nella sua sede, ai confini del mondo. La tattica dei Titânes si basava sull'esercizio della cruda violenza, ma il figlio di Iapetós, l'accorto Promētheús, cercò di indurli alla ragione. Ricordò loro che Gê aveva decretato la vittoria del più astuto.

I Titânes spregiarono però i suoi consigli e Promētheús decise allora di passare dalla parte di Zeús.

Per dieci anni le due generazioni divine, soffrendo grandi pene, si affrontarono in tremende battaglie.

Sembrava non esserci, all'aspra contesa, né fine né soluzione. Né gli scontri portavano qualche vantaggio per l'una parte o per l'altra. La conclusione della guerra si profilava lontana e incerta.

L'oracolo della dea-terra Gê predisse allora a Zeús la vittoria, a patto che prendesse come alleati coloro che Ouranós, nella sua scelleratezza, aveva imprigionato nel Tártaros.

Invidioso della forza e dell'aspetto degli Ekatóŋcheires, i giganti dalle cento braccia, Ouranós li aveva infatti incatenati nel profondo della terra, ai confini del mondo, e da molto tempo Kóttos, Briáreōs e Gýgēs soffrivano pene e dolori nella loro prigione. Stessa sorte avevano subito i Kýklōpes dal cuore violento: anche Bróntēs, Sterópēs ed Árgēs stavano rinchiusi sotto la terra dai vasti cammini, crucciati nel cuore.

Zeús si recò allora nel Tártaros e, dopo avere ucciso Kámpē, il mostro difforme, dall'alta testa, che custodiva i prigionieri di Ouranós, sciolse gli Ekatóŋcheires e i Kýklōpes dai lacci funesti che il padre aveva loro imposto.

Dopo essere stati condotti sul monte Ólympos, Ekatóŋcheires e Kýklōpes vennero fatti rifocillare con néktar e ambrosía, lo stesso cibo che consumavano gli dèi. Quel nutrimento infuse nei loro animi coraggio e valore.

Allora Zeús si rivolse loro: — Ascoltatemi, splendidi figli di Gê e Ouranós, affinché io dica quanto il cuore mi suggerisce nel petto. Già da tempo contendiamo ogni giorno, i Titânes e noi nati da Krónos, per il dominio sul kósmos. E voi, risaliti alla luce per mia volontà, dopo che tanto a lungo avete sofferto nella tenebra oscura, potete ora mostrare ora ai Titânes di quale forza sono capaci le vostre braccia invincibili.

A lui rispose Kóttos, a nome dei suoi fratelli: — Signore, non ci racconti cose sconosciute, ma anche noi sappiamo che in te albergano saggezza e intelligenza. Sappiamo che salvasti i tuoi stessi fratelli dalla furia divoratrice di Krónos. E siamo consci di essere stati liberati dalle tenebre per tua scelta. Perciò, con mente inflessibile e accorto pensiero, combatteremo ora al vostro fianco contro i Titânes, appoggiando il vostro potere nelle aspre battaglie.

Tutti gli dèi lodarono il suo discorso e tutti i cuori, ancor più di prima, bramarono di tornare a combattere. I Kýklōpes si misero al lavoro e consegnarono a Zeús il tuono, la folgore ardente e il fulmine che, prima, celava in seno l'immane Gê. A Poseidôn donarono il tridente, ad Háidēs l'elmo che rende invisibili.

La battaglia riprese con inaudita ferocia. Da un lato i Titânes, dall'altra quanti erano stati generati da Krónos e i loro alleati.

I possenti Ekatóŋcheires si schierarono dinanzi al nemico e, roteando le cento braccia che si protendevano dalle loro spalle, presero a scagliare contro di loro una gragnola di enormi macigni. Dall'altra parte, i Titânes rinforzarono subito le schiere e mostrarono a loro volta di quale forza e arroganza fossero capaci.

Così tremenda era la battaglia, che ne risuonava il mare infinito, rimbombava sotto i piedi la terra, gemeva il vasto cielo. Lo stesso monte Ólympos tremava sotto l'assalto dei Titânes, e le scosse di quell'indicibile tumulto giungevano fino al Tártaros. I due eserciti si scontravano con indicibile strepito e le loro grida giungevano fino al cielo stellato

Né Zeús trattenne oltre il suo furore. Colmatosi il suo cuore di rabbia, manifestò tutta la sua furia e violenza. Agguantando tra le mani i fulmini forgiati dai Kýklōpes, scese dall'Ólympos in un incessante bagliore di lampi. Le folgori piovevano fitte giù dal cielo, facendo rimbombare la terra; i boschi crepitavano tra le fiamme, bollivano le correnti di Ōkeanós e il mare infecondo. Il tuono, il fulmine e la folgore, scagliati come dardi, suscitavano grida e clamore da entrambi i fronti, ed era tale il fragore che sembrava che il cielo stesse per precipitare sulla terra, o la terra si stesse sollevando per abbattersi contro il cielo. Era come se Ouranós e Ge stessero per unirsi ancora una volta nel loro abbraccio, ma tale immane frastuono era provocato unicamente dagli immortali in lotta gli uni contro gli altri.

Poi la battaglia volse al declino. Accecati dai fulmini, travolti dai venti infuocati, schiacciati dai macigni scagliati giù dal cielo, i Titânes vennero sbaragliati.

Finalmente abbattuti, i Titânes vennero avvinti da terribili catene. Furono gli Ekatóŋcheires a trascinarli sotto la terra dai vasti cammini, in un luogo così lontano dalla superficie terrestre quanto questa è distante dal cielo. Si dice che un'incudine di bronzo, lasciata cadere dal cielo, precipiti per nove notti e nove giorni, prima di toccare terra nel decimo. Ebbene, la stessa incudine, cadendo dalla terra, precipiterebbe per nove notti e nove giorni, prima di giungere al Tártaros.

Luogo oscuro e penoso, che persino gli dèi hanno in odio, vi sono nel Tártaros le sorgenti e i confini del kósmos. Venti furiosi si impadronirebbero subito di chiunque oltrepassi quelle porte, trascinandolo via da una tempesta all'altra, e non basterebbe un anno intero per riuscire ad arrivare sul fondo di quell'abisso.

Lì, in una caligine oscura, vennero rinchiusi i Titânes, in una cupa terra ai confini del mondo. Circonda quel luogo un muro di bronzo, e la notte lo cinge in triplice fascia, quasi una collana, mentre al di sopra di esso sorgono le radici della terra e del mare scintillante. Su quel muro, Poseidôn ha imposto delle porte di bronzo, ma ai Titânes non è dato di passarle. Lì posero dimora Gýgēs, Kóttos e il magnanimo Briáreōs, fedeli guardiani di Zeús.

Non lontano, a occidente, s'innalza la casa terribile di Nýx, la notte oscura, avvolta da nuvole livide. Nei pressi, sono soliti incontrarsi Nýx ed Hēméra, la notte e il giorno, che si alternano nel passare attraverso un portale di bronzo, l'una per scendere in basso, l'altra per percorrere la terra e il mare. Qui hanno dimora anche i figli di Nýx: Hýpnos, il sonno, e Thánatos, la morte funesta. Di loro, l'uno percorre la terra e l'ampio dorso del mare, pacifico e lieve per gli uomini; l'altra, con cuore ferrigno e animo di bronzo, tiene per sempre in suo potere chiunque ghermisca. Qui dimora anche Stýx, nell'illustre casa, ricoperta di roccia, che s'appoggia su colonne d'argento rizzate verso il cielo. Di fronte alberga la dimora degli inferi, dove un giorno siederà Háidēs con la sua sposa.

Ma furono i figli di Iapetós a subire la sorte peggiore. Átlas, che alcuni dicono abbia guidato i Titânes nel corso della battaglia, venne esiliato nel remoto occidente, presso le isole delle Hesperídes, proprio di fronte alla casa di Nýx. E lì, ritto con testa e braccia instancabili, fu condannato a reggere la volta del cielo. Suo fratello, il tracotante Menoítios, venne colpito dal fulmine e precipitato nell'Érebos tenebroso. L'astuto Promētheús, che pure aveva aiutato Zeús nel corso della battaglia, venne incatenato – ma per altre ragioni – alle rupi del Kaúkasos. In quanto al malaccorto Epimētheús, non soffrì punizioni, ma sarebbe stato lui stesso causa di eterna condanna per l'intero genere umano...

Più lieve il destino delle titanídes – Theía, Thémis, Mnēmosýnē e Phoíbē –, che Zeús graziò per intercessione di Mêtis e Rhéa. [...]"

Fonte: bifrost.it (Bifröst, il ponte arcobaleno).
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Re: Mitologia

Messaggioda allgamestaff » 02/06/2012, 21:33

Ne posto uno anch'io. Si tratta del mito di Demetra e Persefone, molto affascinante a mio avviso :)

Demetra, figlia di Crono e di Rea era la madre di Persefone, avuta dal fratello Zeus.

Un giorno Persefone, mentre coglieva dei fiori con altre compagne si allontanò dal gruppo e all'improvviso la terra si aprì e dal profondo degli abissi apparve Ade, dio dell'oltretomba e signore dei morti che la rapiva perchè da tempo innamorato di lei.

Il rapimento si era compiuto grazie al volere di Zeus che aveva dato il suo consenso ad Ade per compiere la violenta azione amorosa.
Demetra, accortasi che Persefone era scomparsa, per nove giorni corse per tutto il mondo alla ricerca della figlia sino alle più remote regioni della terra. Ma per quanto cercasse, non riusciva ne a trovarla, ne ad avere notizie del suo rapimento.

All'alba del decimo giorno venne in suo aiuto Ecate, che aveva udito le urla disperate della fanciulla mentre veniva rapita ma non aveva fatto in tempo a vedere il volto del rapitore e suggerì pertanto a Demetra di chiedere ad Elios, il Sole. E così fu. Elios disse a Demetra che a rapire la figlia era stato Ade.

Inutile descrivere la rabbia e l'angoscia di Demetra, tradita dalla sua stessa famiglia di olimpici. Demetra abbandonò l'Olimpo e per vendicarsi, decise che la terra non avrebbe più dato frutti ai mortali così la razza umana si sarebbe estinta nella carestia. In questo modo gli dei non avrebbero più potuto ricevere i sacrifici votivi degli uomini di cui erano tanto orgogliosi.

Si mise quindi la dea a vagare per il mondo per cercare di soffocare la sua disperazione, sorda ai lamenti degli dei e dei mortali che già assaporavano l'amaro gusto della carestia.

Il suo pellegrinaggio la portò ad Eleusi, in Attica, sotto le spoglie di una vecchia, dove regnava il re Celeo con la sua sposa Metanira. Demetra fu accolta benevolmente nella loro casa e divenne la nutrice del figlio del re, Demofonte.

Col tempo Demetra si affezionò al fanciullo che faceva crescere come un dio, nutrendolo, all'insaputa dei genitori, con la divina ambrosia, il nettare degli dei.

Attraverso Demofonte la dea riusciva in questo modo a saziare il suo istinto materno, soffocando il dolore per la perduta figlia. Decise anche di donare a Demofonte l'immortalità e di renderlo pertanto simile ad un dio ma, mentre era intenta a compiere i riti necessari, fu scoperta da Metanira, la madre di Demofonte. A quel punto Demetra, abbandonò le vesti di vecchia e si manifestò in tutta la sua divinità facendo risplendere la reggia della sua luce divina.

Delusa dai mortali che non avevano gradito il dono che voleva fare a Demofonte, si rifugiò presso sulla sommità del monte Callicoro dove gli stessi Eleusini gli avevano nel frattempo edificato un tempio. Il dolore per la scomparsa della figlia, adesso che non c'era più Demofonte a distrarla, ricominciò a farsi sentire più forte che mai e a nulla valevano le suppliche dei mortali che nel frattempo venivano decimanti dalla carestia.

Alla fine Zeus, costretto a cedere alle suppliche dei mortali e degli stessi dei, inviò Ermes, il messaggero degli dei, nell'oltretomba da Ade, per ordinargli di rendere Persefone alla madre. Ade, inaspettatamente, non recriminò alla decisione di Zeus ma anzi esortò Persefone a fare ritorno dalla madre. L'inganno era in agguato. Infatti Ade, prima che la sua dolce sposa salisse sul cocchio di Ermes, fece mangiare a Persefone un seme di melograno, compiendo in questo modo il prodigio che le avrebbe impedito di rimanere per sempre nel regno della luce.

Grande fu la commozione di Demetra quando rivide la figlia ed in quello stesso istante, la terrà ritornò fertile ed il mondo riprese a godere dei suoi doni.

Solo più tardi Demetra scoprì l'inganno teso da Ade: avendo Persefone mangiato il seme di melograno nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno, ogni anno, per un lungo periodo. Questo infatti era il volere di Zeus.

Fu così allora che Demetra decretò che nei sei mesi che Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, dando origine all'autunno e all'inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, dando origine alla primavera e all'estate.


Fonte: http://www.elicriso.it/it/mitologia_ambiente/demetra/

Una bella spiegazione dell'esistenza delle stagioni :)
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